Nella storia della colonizzazione greca sulle coste del Mediterraneo occidentale, un posto di rilievo ha la storia di Megara Iblea: una storia tormentata, non solo in epoca antica ma anche ai giorni nostri.
Stando alle fonti antiche, l’ecista Teocle aveva da poco fondato la colonia di Naxos insieme a un gruppo di greci di origine calcidese, quando sulle coste ioniche siciliane una nuova spedizione di genti greche sbarcò in cerca di una terra da abitare. Erano gli ultimi decenni dell’VIII secolo a.C. Stavolta si trattava di popoli di stirpe dorica, in particolare della città di Megara Nisea, guidati da tale Lamis che, convinto di condurre i suoi in un luogo sicuro e ricco di risorse come la Sicilia tutta era a quei tempi, fece sosta nella località chiamata Trotilo, oggi corrispondente al borgo marinaro di Brucoli, vicino ad Augusta. La sua scelta, però, non si rivelò vincente perché il luogo non era ferace e sicuro come aveva sperato.
E allora, cosa fare? La decisione più saggia era quella di spostarsi, magari non troppo lontano e verso la fertile pianura dell’entroterra, quella che oggi è la piana di Catania. Il tempismo però non doveva essere il loro forte perché proprio nel luogo prescelto, i calcidesi di Naxos avevano appena fondato una nuova colonia, Leontinoi, l’odierna Lentini. Sembra iniziasse allora una pacifica convivenza tra i due gruppi di connazionali ma, sarà che dopo tre giorni l’ospite puzza – in questo caso furono circa sei mesi di cattivi odori – sarà che, come diceva il sommo Dante, sa sempre di sale “lo pane altrui”, fatto sta che la convivenza si interruppe con la ripartenza dei megaresi. I quali si diressero di nuovo a sud e verso il mare, fermandosi su una sottile striscia di terra, la penisola di Thapsos, oggi detta di Magnisi. Le popolazioni indigene che da secoli abitavano quel luogo non accettarono i nuovi arrivati, che ancora una volta si prepararono a spostarsi. Senza il loro capo, oltretutto: Lamis infatti era morto a Thapsos. Esuli e senza guida, i megaresi furono costretti ad affinare le loro abilità e a sfoderare capacità diplomatiche, cercando un compromesso con quei Siculi che li avevano scacciati. Entrarono dunque in contatto con uno dei loro capi, il re Iblone il cui nome era legato nella tradizione a quello di altri centri indigeni della zona. Questi con grande magnanimità decise di concedere loro una porzione del suo territorio sulla quale essi fondarono la nuova città. Megara Iblea fu il suo nome: Megara in ricordo della città di provenienza, e Iblea dal nome di Iblone.
Tucidide ci informa che gli abitanti di Megara vissero nella loro città per duecentoquarantacinque anni e poi ne furono scacciati da Gelone, tiranno di Siracusa, presumibilmente nel 483 a.C. in realtà nel IV secolo a.C. venne ricostruita per volere di TImoleonte, come confermato dalle esplorazioni archeologiche. Molto interessante è ciò che ci rimane della fase più antica della colonia. Dalle prime esplorazioni di Paolo Orsi alla fine del XIX secolo agli scavi sistematici da parte dell’equipe dell’École Française de Rome fino alle più recenti indagini della Soprintendenza siracusana, è stato possibile portare alla luce parte dell’abitato di età arcaica nei pressi dell’agorà, oltre che alcuni santuari e una estesa necropoli. L’impianto urbano ricalca ancora la prima forma che i coloni diedero alla città e ci dimostra quale dovesse essere l’idea alla base delle nuove fondazioni. L’impianto viario piuttosto regolare e ad andamento quasi ortogonale è infatti asservito all’estensione dei singoli lotti abitativi che erano stati assegnati ai nuclei familiari al momento della fondazione; lotti tutti uguali per dimensione che raggruppati formavano degli isolati più o meno rettangolari delimitati da strade più ampie (plateiai) e strade più strette (stenopoi). C’era una forma di equità nella distribuzione di questi lotti: nelle nuove colonie non aveva più importanza la classe sociale di appartenenza dei cittadini. Ciò che era stato nella madrepatria non aveva più valore nella nuova vita che avevano deciso di affrontare e si ricominciava tutti dallo stesso livello, dalla stessa quantità di terra su cui costruire la propria casa. Erano abitazioni semplici, con poche stanze costruite intorno a un cortile che doveva ospitare anche animali e attrezzi da lavoro. Megara fu una cittadina modesta ma operosa, come ci testimonia la presenza di fornaci e il rinvenimento di manufatti anche di alta qualità artistica. Fra questi spiccano due famose sculture, oggi conservate nel Museo archeologico Paolo Orsi di Siracusa: il famoso Kouros di Megara e la Kourotrophos, il ritratto di stile arcaico di una madre che allatta il suo bambino, simbolo della Dea Madre che nutre gli esseri viventi.
Tristemente curioso, però, il destino di questa città. Ancora una volta la scelta del luogo è stata una variante infelice della sua storia. Nel 1949, quando la missione di scavo francese procedeva a ritmo sostenuto, proprio a ridosso dell’abitato iniziò la costruzione del polo petrolchimico siracusano con la sua foresta di ciminiere e le sue malsane esalazioni. Con grande sforzo Luigi Bernabò-Brea, allora Soprintendente, cercò di strappare la maggiore quantità possibile di territorio alla costruzione dell’impianto, ma ciò non impedì comunque che fossero obliterate parti estese della necropoli e dell’abitato e che la bellezza del luogo fosse compromessa irrimediabilmente. Il sito, ancora tutelato, purtroppo non attraversa un momento di gloria e la sua valorizzazione è resa impossibile dalla mancanza di fondi ad esso destinati. Ma ora che i tempi sono cambiati e che si comprende più a fondo il valore del patrimonio culturale per lo sviluppo dei territori, chissà che nasca una nuova sensibilità, e che il povero Lamis possa finalmente riposare in pace.
Claudia Cacciato
Fonti delle immagini: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68202237, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=53833512, https://www.arte.it/foto/i-tesori-inamovibili-della-sicilia-114/13
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